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LES CALANQUES:
Francia. Da tre giorni stiamo arrampicando sulle pareti più belle delle Calanques; oggi, il quarto, scegliamo di scalare lo zoccolo della Grande Bandelle, via tra le più conosciute della zona, sicuramente impegnativa, ma alla nostra portata. Con il gruppo decidiamo che sia io a partire per primo, accetto volentieri perchè mi sento in forma, la mente è serena, il fisico è vecchiotto ma regge ancora bene; sono motivato e carico di energia. Con calma e precisione inizio a salire; i passaggi impegnativi li supero bene e senza particolare difficoltà, “ottima scalata” penso tra me. A tre quarti circa della salita ecco però l’imprevisto: la via non è più attrezzata, la parete è liscia e priva di appigli; alla mia destra, nella roccia scorgo un’incrinatura che punta completamente verticale verso il cielo, decido allora di scalare quel versante. Il sole è caldo e lo sento scottare sulle spalle, mi accorgo che la situazione è veramente cambiata, faticosamente comincio a salire. I passaggi sono molto tosti, non c’è più nulla, né prese per le mani, né per i piedi, mi accorgo che sto scalando completamente in libera e la possibilità di cadere è sempre presente; la situazione è veramente difficile. Sotto di me sento Luca che grida “a sinistra, a sinistra!”, troppo tardi, ormai sono in via e non posso più scendere, sarebbe troppo pericoloso.

 “Quando Franco arrampica e non risponde significa che è sul difficile” le parole di Luca mi arrivano come un’eco lontano, poi la mente torna immediatamente alla roccia, devo trovare il modo di proteggermi ed aiutare il mio secondo a salire. A fatica riesco a mettere qualche precario friends e una nut, un lungo anello di cordino col rinvio mi aiuta a tranquillizzarmi più psicologicamente che per la sua reale efficacia; la mia attenzione torna alla roccia che ho davanti. Trovo una crepa larga e liscia, riesco ad entrare con mezza spalla e, con il ginocchio in contrapposizione, tento le tecniche più disparate che conosco inventandomene anche di nuove. Metro dopo metro continuo la mia scalata, le braccia mi fanno male, le mani sono tutte scorticate, ai polsi sento i crampi ma non perdo la calma, sono sempre concentrato, devo “solo” salire! Come se avessi il potere di sdoppiarmi cerco di imporre al mio cervello di non recepire i segnali del mio corpo – fatica, dolore - devo solo trovare la maniera di salire, capire gli svasi, adeguare le posizioni del corpo e degli arti alle spaccature della roccia che mi trovo davanti, entrare in simbiosi con quella parete liscia e verticale. Senza rendermene conto, dopo avere impiegato più di un’ora per un tiro di cinquanta metri circa, raggiungo finalmente la cima. Non riesco ad esultare. Sono fisicamente sfinito, trovo delle rocce e mi sdraio, non c’è soddisfazione in me, solo stanchezza; poi uno ad uno arrivano gli amici e con loro i complimenti e le congratulazioni che non si lesinano di certo. Solo allora realizzo che questa è stata la via più dura che abbia mai fatto e nelle parole degli amici del GAL sento la mia felicità.   
Franco - Il Vecio